Si chiama “bossing” ed è una situazione in cui il capo o il superiore esercita abusi di potere sul proprio subordinato. Questi abusi possono manifestarsi sotto forma di umiliazioni, critiche costanti, assegnazione di compiti ingrati e impossibili da portare a termine, minacce e altri comportamenti scorretti.
E’ il tema trattato nel romanzo “Il capo”, edito da Mondadori, l’ultima fatica letteraria di Francesco Pacifico. Romano, classe 1977, suoi romanzi come “Il caso Vittorio” (minimum fax, 2003), “Storia della mia purezza” (Mondadori, 2010) o “Class” (Mondadori, 2014, nuova edizione 2021), sono tradotti negli Usa e nel Regno Unito. In questo suo ultimo lavoro indaga il modo in cui sta cambiando il nostro rapporto col lavoro.
Se ne parlerà venerdì 17 novembre, nella Biblioteca Comunale di Poli (Rm), in VIA UMBERTO I, alle ORE 17,30. L’incontro, gratuito e aperto a tutti, rientra nell’ambito della rassegna letteraria “Letture d’autore” a cura del Sistema Bibliotecario Prenestino.
Interverrà sull’argomento la senatrice Lavinia Mennuni, membro della “Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza”, già responsabile della “Commissione Pari Opportunità” del Comune di Roma dal 2008 al 2013.
Il romanzo è la storia vera di un abuso professionale, mai denunciato, ai danni di una giovane impiegata, Gaia, dipendente presso la «Fondazione», una grossa realtà no profit con sede a Roma, che si occupa di progetti pedagogici. Tutto ha inizio quando la giovane viene invitata a una misteriosa “settimana di team building” nel Sud Tirol. Ma, una volta arrivata nello sfarzoso resort di montagna arroccato sulle valli alpine, ad accoglierla non ci sono né il capo né i suoi colleghi.
La storia narrata da Pacifico è innanzitutto una storia vera e storie come quelle di Gaia accadono quotidianamente sotto i nostri occhi , perfino sotto casa, a pochi passi da noi, basta guardarsi intorno. E’, soprattutto, una riflessione sui meccanismi del potere: manipolazione, micro aggressioni psicologiche, bossing. La finalità del bossing è quella di umiliare e mortificare il dipendente con una serie di comportamenti di vario genere: continui rimproveri, controlli ossessivi sulla qualità del lavoro svolto, sovraccarico di compiti, negazione di ferie e di permessi. Questo comportamento è illecito e costituisce una particolare forma di mobbing, perché proviene dall’alto anziché dai colleghi di lavoro. In buona sostanza è un modo per manipolare o controllare gli altri, soprattutto le donne.
Un po’ di numeri. In Italia più di 1 milione e 400 mila donne fra i 15 e i 65 anni hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro, mentre un milione 173 mila donne fra i 15 e i 65 anni hanno subito ricatti sessuali sul posto di lavoro nel corso della loro vita lavorativa.
Le professioni che registrano un alto tasso di violenza sulle lavoratrici sono quelle della salute e dei servizi sanitari e sociali con il 42,7% (appena l’11% riguarda i lavoratori), quelle della scuola con l’11,8% (appena l’1,3 riguarda i lavoratori), quelle degli impiegati addetti al controllo e recapito della documentazione e degli impiegati addetti ai movimenti di banche, rispettivamente con il 5 e il 4 per cento (contro il 3,8 e il 2,9 per cento che riguarda invece i lavoratori).
La legge italiana prevede delle sanzioni per i datori di lavoro che si macchiano di questo reato. Dal punto di vista civilistico l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro “di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori”. Tale obbligo, fa sì che il datore di lavoro possa essere chiamato a risarcire il danno:
• sia al patrimonio professionale (c.d. danno da dequalificazione);
• sia alla personalità morale e alla salute latamente intesa (c.d. danno biologico e neurobiologico) subito dal lavoratore.
In questo senso, fa testo la sentenza 35061/21 del 17/11/21 della Cassazione, che ha previsto un risarcimento danni.